Racconti


Tullio Lauro: il ricordo di Dario Colombo

Non eravamo d’accordo su nulla.

Gli dicevo che doveva imparare a tutti costi l’inglese, se non altro per parlare con i giocatori americani: e lui non ne voleva sapere.

Gli dicevo che doveva volare:e lui si rifiutava di salire su qualsiasi aereo (ma poi un giorno,quando non eravamo più assieme, lo fece).

Gli dicevo che lavorando in un periodico sarebbe stato utile che sapesse – almeno! – tenere in mano una macchina fotografica: figurarsi.

Io portavo i capelli alla marine: e lui lunghi sulle spalle come un rocker anni ’60.

Mi vestivo all’inglese:e lui con improbabili giacche che neanche l’Equipe 84.

Io cattolico di sinistra, lui radicale più del suo amico Pannella.

Appena superavamo il confine della vecchia Jugoslavia lui ordinava mattina, mezzogiorno e sera solo civapcici: io magari avrei mangiato anche una minestra e una palacinka.

E potrei continuare all’infinito.

Ma poi si arrivava ad un argomento su cui misteriosamente e regolarmente e miracolosamente ci trovavamo sempre d’accordo: "I Giganti del basket". A cui lui approdò quando io ero già direttore e diventandone in breve qualcosa di più e di diverso del semplice caporedattore. Con lui concordammo rivoluzione grafiche, cambi di testata e di periodicità (mensile, quindicinale e poi settimanale), assunzioni e collaborazioni, per non parlare di servizi, titoli, impaginazioni. Senza mai perdere più di cinque minuti e sapendo che nessuno dei due lo faceva per far contento l’altro.

E quando si trattò di metter mano al portafoglio per salvare il giornale dalla morte sicura che aveva decretato l’editore di allora, Tullio fu al mio fianco senza esitazioni, anche se il portafoglio – il mio e il suo – non era certo quello di uno sceicco arabo.

E così quando l’allora direttore dei programmi sportivi di Telenova, Marco Civoli, venne da me dicendomi: ”Vado in RAI, ti affido le telecronache dell’Olimpia su Telenova” io gli indicai la porta della stanza di Tullio e gli dissi: ”Il microfono devi darlo a lui e a nessun altro”. Mi sembrava il minimo che potessi fare, ma soprattutto mi sembrava la scelta giornalisticamente più giusta: sappiamo tutti com’è andata.

Poi le nostre strade si sono divise: io verso radio e televisione, lui ancora con nuove avventure editoriali nel basket e poi in Tv. Fino a quel giorno maledetto quando – ero nei box Ferrari a Montecarlo – ricevetti la telefonata di Massimo Marianella, il telecronista: “Tullio non c’è più”.

Mi venne in mente la notte di tanti anni prima, era il 1991, quando mia figlia di pochi mesi era ricoverata in ospedale dopo un terribile volo dalle scale. Sulla porta della cameretta, nella luce fioca dell’ospedale, nel cuore della notte comparve una sagoma con i capelli lunghi da rocker e una giacca  da Equipe 84. Caro Tullio.

Dario Colombo per il Museodelbasket-milano.it