Racconti


"Jim McGregor e i tornei estivi" di Roberto Bergogni

"I sogni non finiscono mai e finalmente li ho messi per iscritto, creando una nuova ricetta, con gli ingredienti dello storico della pallacanestro nei primi due capitoli; del biografo di McGregor e dei suoi “compagni di merende” nel terzo capitolo; del cronista nel quarto e quinto raccontando le vicende dei maggiori tornei estivi e degli americani All-Stars che dal ’66 al ’78 allietarono le notti estive italiane. "


Era da molto tempo che volevo raccontare l’epoca dei tornei estivi e dei suoi protagonisti, di cui leggevo le gesta sulla stampa e vedevo qualche partita in tv. Giocai d’estate in qualche torneo notturno cremonese, ne organizzai a San Sigismondo e addirittura mi pagarono per aver vinto il Torneo di Pontevico (BS), senza dimenticare quella volta che feci parte dei Jaffa All-Stars come rinforzo straniero di una squadra palestinese (!), giocando contro l’Italia al Torneo del Politecnico di Milano, oppure una comparsata in tarda età nel bel Torneo di Isola del Gran Sasso durante la notte della taranta. Ma andiamo oltre che è meglio.

Il momento preciso di quando ho deciso di scrivere questo libro è nato al mio arrivo a Roseto degli Abruzzi, per il mio trasferimento in Abruzzo a causa della mia professione di tecnologo alimentare. Era la primavera del 2008 e la prima cosa che feci fu quella di andare a sedermi sui gradoni dell’Arena Quattro Palme, di chiudere gli occhi e immaginare i suoni e i rumori che avevano accompagnato la storia del basket internazionale.

I sogni non finiscono mai e finalmente mi sono deciso a metterli per iscritto, creando una nuova ricetta, con gli ingredienti dello storico della pallacanestro nei primi due capitoli; del biografo di McGregor e dei suoi “compagni di merende” nel terzo capitolo; del cronista nel quarto e quinto raccontando le vicende dei maggiori tornei estivi e degli americani All-Stars che dal ’66 al ’78 allietarono le notti estive italiane.

Giocarono in antiche arene romane come l’anfiteatro di Verona e al secondo piano di un edificio costruito da Jacopo Sansovino nel 1545 e affrescato da Paolo Veronese e Domenico Tintoretto, la famosa Scuola Nuova della Misericordia , sede della società sportiva Reyer Venezia dal 1914; nella Royal Albert Hall di Londra e nel cortile del palazzo comunale di Messina; sul ponte di una petroliera al largo della costa irlandese e all’ombra del Partenone; dalla Scandinavia alla Costa Azzurra; in un parco giochi di Singapore e persino in Piazza San Pietro. A volte era meno sacro: in Belgio giocarono in un campo all’aperto con pendenza del 20\% per drenare l’acqua piovana; l’arena di Nantes aveva il pavimento in cemento e la temperatura così fredda da vedere il respiro; a Challans il campo era in moquette e non sentivi né i tuoi passi né la palla rimbalzare. Una volta a Bombay si trovarono alle 7 della mattina per evitare la calura asfissiante, su una pubblica piazza che venne liberata da decine di morti di fame addormentati per terra, tirarono le righe e giocarono contro avversari di 1m70 a piedi scalzi. Ranieri di Monaco e il principino Alberto erano tifosi devoti degli All-Stars che sfidarono le corazzate sovietiche e jugoslave al culmine della guerra fredda, ma per tutti erano GLI AMERICANI, rappresentanti ufficiosi dei maestri del gioco.

Non erano tutte rose e fiori per chi rimaneva in Europa: le attese dei tifosi e dei dirigenti erano spesso superiori alle prestazioni. “Americani buoni per l’Europa” era la definizione che usavano gli scopritori di talenti: comprendeva le ali dotate ma troppo gracili o lente per i pro, i centri bassi o con scarsa tecnica. Il comun denominatore era di non tirarsi mai indietro. Wayne Brabender e Clifford Luyk del Real Madrid, Bob Morse e Chuck Jura in Italia erano probabilmente all’altezza dell’NBA e sono gli esempi più significativi di come i migliori collegiali riuscirono a migliorarsi e a trovare l’America in Europa. Steve Hawes, che diede lezioni di tecnica a tanti, diventò un solido pro pur senza primeggiare.

Jim McGregor era il loro nume tutelare che permise alla stagione dei tornei estivi italiani di diventare un’esperienza unica al mondo. Nelle chiacchierate alcuni mi hanno ricordato squadre estive favolose e invincibili e sembrerebbe una “sindrome di Collegno”, ma io la chiamo scherzosamente “sindrome di McGregor” o evangelicamente “Falsi come Giuda”.

Oggi è facile parlare di NBA, al tempo dell’Homo Social ma allora ben pochi esperti avevano la possibilità di vederli dal vivo. In quelle due decadi comprese tra le Olimpiadi neoclassiche e fastose di Roma e quelle imperiali e boicottate di Mosca, non c’era internet, i primi newsgroup degli studenti americani erano nati nel ’79, e non si sapeva quasi niente del basket d’oltreoceano, tranne pochi fortunati che erano andati alla ricerca del Sacro Graal della pallacanestro: per esempio Sandro Gamba e Cesare Rubini, Giorgio Gandolfi, conoscitore di basket giocato, allenato, organizzato, comunicato. “A quel tempo non vedevi giocare squadre americane”, dice Henry Fields tra i primi stranieri in Europa. “Le squadre di McGregor erano davvero l’unico basket americano da vedere. C’era folla ovunque. Erano celebrità. È stato fantastico”.

Vero è che fin da subito, grazie ai missionari della YMCA e in seguito ai soldati in giro per il mondo, la pallacanestro si era diffusa dappertutto, ma nessuno in Europa aveva mai sentito parlare degli squadroni barnstorming itineranti negli Stati Uniti, che dopo il First Team furono tutti eletti nell’Arca della Gloria: Celtics nel ’59, Germans nel ’61, Rens nel ’63 e Globetrotters nel 2002; Solamente nel ’19, nel ’36 e nel ’48 il mondo si era confrontato ufficialmente con gli americani, che restavano sconosciuti nel loro isolamento, come i maestri inglesi della pedata. La chiave di volta fu nel ’50, con il primo World Tour degli Harlem, seguito dai mondiali argentini e da altre squadre dilettanti in trasferta. E nel ’56 la prima squadra NBA fece una trasferta che in Italia rimase sottotraccia, ma in Spagna suscitò entusiasmo più delle Olimpiadi nella terra dei canguri; Roma ’60 e la sua Bella Vita furono magiche; il Dream Team della trasferta NBA nel ’64 fu più impattante degli olimpionici di Tokyo. Tutte rappresentarono un punto di svolta come dal ’66 la Gulf di McGregor e il suo programma che contribuirono a far diventare la pallacanestro lo sfidante mondiale del calcio sovrano.

                                                                                                   (Roberto Bergogni )

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Roberto Bergogni - "Jim McGregor e i tornei estivi" (per gentile concessione dell'autore)